martedì 25 gennaio 2011

I nuovi cittadini

Il 2011 sarà un anno di impegni e di celebrazioni molto importanti. Da una parte, la Commissione Europea ha deciso di dedicarlo alle ‘attività volontarie che promuovono la cittadinanza attiva’. Ecco perché quest’anno sentiremo molto spesso parlare di Anno europeo del volontariato o, nella dizione che noi preferiamo, di Anno Europeo della cittadinanza attiva. Dall’altra parte, questo è l’anno del 150° anniversario dell’Unità d’Italia. Una scadenza rilevante non soltanto per aggiornare le interpretazioni del processo storico che ha visto la nascita dello stato italiano unitario (1861), ma, soprattutto, per ragionare tutti insieme sull’Italia che verrà e, in qualche modo, se questo è possibile, sui prossimi 150 anni di vita del nostro paese.
Per un verso, dunque, emerge una domanda sul futuro dell’idea di cittadinanza in Europa e sulle potenzialità di quella innovativa forma che si definisce ‘cittadinanza attiva’. Per altro verso, e insieme, si apre la questione della cittadinanza nazionale, che oggi merita di essere ripensata alla luce di decenni di storia e, soprattutto, in vista della costruzione comune del futuro.

Un mondo in trasformazione

Questo duplice richiamo si colloca in un contesto globale in profonda trasformazione. Il sociologo tedesco Ulrick Beck, per esempio, legge nella realtà che viviamo un processo di cosmopolitizzazione delle società. Mentre, infatti, le pratiche della vita quotidiana sono sempre più ispirate e guidate da un approccio transnazionale, nelle classi dirigenti ed intellettuali continua a sopravvivere una vecchia tradizione che individua le radici delle norme giuridiche e delle politiche pubbliche nell’esclusiva dimensione nazionale. Il mutamento delle società globali richiede, viceversa, un mutamento delle nostre abitudini interpretative. Lo stato-nazione non può più essere considerato il punto di riferimento obbligato per l’indagine dei fenomeni sociali e politici, né riesce più a dare tutte le risposte per la soluzione dei problemi e per l’accompagnamento dei processi. Le società contemporanee diventano sempre più ‘transnazionali’ grazie a diversi fattori (universalizzazione dei diritti umani, crescita del commercio transnazionale di prodotti culturali, intensificazione ed estensione delle vie di comunicazione, la diffusione della mobilità umana e dei flussi migratori, ecc.). In questo quadro si colloca, oggi, il rapporto tra immigrazione e cittadinanza (se ne è parlato il 25 gennaio al Senato nel convegno “I nuovi cittadini” promosso da Cittadinanzattiva e dall’Ambasciata degli Stati Uniti in Italia). Un rapporto che possiamo cominciare ad approfondire a partire da una domanda (in che senso nuovo oggi gli immigrati sono titolari di diritti?) e da una sfida (quella della cittadinanza attiva e della sussidiarietà costituzionale).

Gli immigrati sono titolari di (quali) diritti?

A questa domanda si può rispondere prima di tutto ammettendo il superamento del nesso Stato-nazione come principio normativo del regime dei diritti di cittadinanza. La cittadinanza, nella sua triplice declinazione basata su diritti, appartenenza e partecipazione, risponde ad altri criteri regolativi: il riconoscimento della persona umana al di là dei propri legami con una comunità specifica, l’esercizio concreto e attivo dei diritti al di là della titolarità formale degli stessi.
La cittadinanza diviene ‘post-nazionale’ e si ancora al regime internazionale dei diritti umani, all’insieme di norme, convenzioni, dichiarazioni che lo sostanziano. In questo rinnovato spazio pubblico, i diritti non scaturiscono dalla sovranità dello Stato-nazione ma dalla “Costituzione”. Non è un caso che la Costituzione italiana sia costruita in questa chiave progressiva. Da un lato, infatti, essa recepisce la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, accogliendo tutele di diritti che vengono ben prima di quelle legate alla cittadinanza nazionale: basti pensare al diritto alla salute di cui i cittadini immigrati godono e che il nostro servizio sanitario nazionale si deve impegnare a tutelare, anche se non sono cittadini italiani (v. sentenza n.269/2010 della Corte costituzionale). Dall’altro, essa apre alle profonde trasformazioni che provengono dalla costruzione della cittadinanza europea, con il suo profondo contenuto di libertà. Si afferma una nuova coscienza storica che distingue tra i diritti della personalità (o, se si preferisce, della cittadinanza costituzionale e universale), che in quanto tali devono essere estesi a ‘tutti’, e diritti di cittadinanza (in chiave nazionale), che possono essere riconosciuti ai ‘membri’ di una specifica comunità politica. In tale quadro, i diritti di libertà per eccellenza, che in quanto tali dovrebbero poter essere garantiti a tutti, e che stanno inoltre a fondamento della nuova cittadinanza europea, sono proprio “il diritto di residenza ed il diritto di circolazione”!

Cittadinanza attiva, sussidiarietà, immigrazione
Se questo ragionamento, poi, si sposta nel campo della cittadinanza attiva la prospettiva si allarga. L’art.118, u.c. della Costituzione mostra benissimo come i cittadini singoli o associati che svolgono attività di interesse generale non sono affatto i titolari di diritti di cittadinanza nazionale, bensì i titolari di diritti di fondamento ‘costituzionale’ (dunque, prima di tutto, diritti umani contenuti nelle Carte internazionali e diritti di cittadinanza secondo gli sviluppi della normativa europea). Tutti i cittadini, pertanto, compresi i cittadini immigrati, sono nelle condizioni di esercitare i propri diritti, di assumersi responsabilità nella vita pubblica, di dare il proprio contributo per lo sviluppo sociale e civile del luogo in cui risiedono. Dunque di svolgere attività di interesse generale. Siamo di fronte ad una cittadinanza sostanziale che si sviluppa nelle politiche della vita quotidiana, ben al di là di questioni meramente formali di appartenenza ad un determinato Stato-nazione.
L’insieme di tutte queste considerazioni ricaccia in un passato davvero antico i criteri di attribuzione della cittadinanza oggi vigenti. L’ordinamento italiano fonda l’attribuzione della cittadinanza nazionale su una sorta di ‘familismo giuridico’: si è cittadini per eredità di sangue o per via di matrimonio. Come è possibile accettare ancora oggi che la cittadinanza si acquisisca per ‘tradizione familiare’, in qualche modo per ‘destino’, piuttosto che per ‘elezione’, per la libera e autonoma scelta di chi decide di vivere nel nostro paese, vi risiede stabilmente condividendo la nostra sorte comune, e qui si impegna con il proprio lavoro, le proprie attività economiche, le proprie iniziative civiche, nella costruzione di una comunità nazionale aperta, accogliente e solidale?

La missione della Repubblica

Di fronte a tutto ciò, l’ipertrofizzazione burocratica della gestione dei permessi di soggiorno o lo stato di limbo al quale vengono condannati gli immigrati di seconda generazione (italiani a tutti gli effetti) è una violenza gratuita, una negazione bella e buona dell’umanità stessa di questi soggetti. Alla luce di questo ragionamento, la missione delle istituzioni repubblicane dovrebbe essere ben diversa. In primo luogo, si tratta di rinnovare l’impegno per la rimozione degli ostacoli allo sviluppo umano di tutti i cittadini, senza distinzioni di sorta, come prevede l’art.3 della Costituzione. In secondo luogo, sulla base del principio di sussidiarietà iscritto nell’art.118, u.c., bisognerà favorire ‘tutti’ quei cittadini che svolgono attività di interesse generale, esercitando diritti e responsabilità. Anche così, certamente, si costruirà un’Italia più unita e più europea. Varrebbe la pena di ricordarlo, in questo speciale anno 2011.

lunedì 3 gennaio 2011

Battisti, Saviano e l'ultima violenza


L’esultanza di un certo manipolo di intellettuali per il ‘NO’ del Brasile all’estradizione di Battisti era questione di ore, se non minuti, e puntualmente è arrivata. Come anticipato in un precedente post la lista dei difensori è lunga e – visto che si tratta di gente anche molto nota che non ha bisogno di ulteriore pubblicità - chi vuole potrà cercarsela da solo su internet (un appello a favore di Battisti risale al 2004, sottoscritto da molti italiani e francesi).

La questione merita una pausa di approfondimento per la varietà di argomentazioni giuridiche, politiche e morali che solleva. Ma, soprattutto, interroga la responsabilità di tutti coloro che hanno a cuore la costruzione di una ragione pubblica rispettosa dei fatti e dei diritti.



1. il primo insieme di questioni è squisitamente giudiziario. Alcuni intellettuali di nazionalità italiana e francese - rappresentati dalla figura di Fred Vargas, archeozoologa e scrittrice di gialli, autrice di un libello con il quale dimostra l’innocenza dell’imputato - sono convinti che quello di Battisti sia il caso di un uomo ingiustamente perseguitato. Certamente, le vicende giudiziarie, specie nei casi di terrorismo, sono tutt’altro che semplici e pacifiche e nessuno può escludere errori anche da parte dei magistrati. Tuttavia, la storia giudiziaria di Battisti dice che più di settanta giudici si sono occupati del caso, nel corso di ben nove processi (il primo è iniziato nel 1981, l'ultimo è terminato nel 1993) che hanno giudicato Battisti responsabile di un elevato numero di rapine, di possesso illegale di armi e di quattro omicidi. La pena dell'ergastolo non è mai stata scontata.

Sul versante giudiziario si contestano almeno tre punti: la legislazione d’emergenza contro il terrorismo, l’uso dei pentiti, il giudizio in contumacia. Il tema della legislazione d’emergenza è importante: è assai discutibile che, in determinate situazioni, per quanto complesse, gli strumenti normali del diritto possano essere aggravati con i conseguenti rischi per le garanzie degli imputati. Allo stesso tempo, legislazioni specializzate esistono e sono state applicate, per esempio, anche sul versante della lotta alla mafia.

Alcuni intellettuali – specie in Francia – accusano lo stato italiano di aver sospeso la democrazia per aver usato i pentiti contro il terrorismo. D’altra parte, però, l’uso dei collaboratori di giustizia nella lotta alla mafia si è rivelato un metodo vincente che molte legislazioni – anche quella francese – hanno copiato. Perché, allora, non esiste nessun caso Dreyfus tra i padrini di Cosa Nostra? Né si può dire che la legislazione speciale sia stata costruita su misura per il cittadino Cesare Battisti. Si tratta comunque di norme che coprono quei reati, chiunque li abbia commessi, e per questo mantengono i loro requisiti essenziali di generalità e astrattezza.

Sulla condanna in contumacia, infine, c’è poco da obiettare. Nel processo si deve garantire la difesa dell’imputato, ma non la sua impunità perché semplicemente non si è presentato in giudizio. Non farsi processare sarebbe ovviamente la difesa ideale, ma l’ordinamento giuridico non prevede soluzioni così comode. Ovviamente, se irregolarità formali o violazioni di legge a tutela del diritto di difesa dell’imputato vi sono state – come alcuni accusano – vanno rilevate e sanzionate. Ma si fa fatica onestamente a immaginare che ciò sia accaduto in tutti e nove i processi che sono stati celebrati.

Resta un dato di fondo assai sgradevole sull’uso politico della magistratura che tutti ovviamente fanno volentieri appena si tratta di difendere se stessi.



2. C’è poi una seconda area di questioni – in verità assai varie - che sono di natura prettamente politica.

La prima – incarnata, per esempio, dal filosofo francese Bernard Henry Lévy - non entra nel merito della colpevolezza di Battisti, ma si limita a proporre un’interpretazione estensiva della dottrina Mitterrand, che amplia il diritto d’asilo a tutti gli ex terroristi. Il punto di partenza ovviamente è assai nobile, scomoda perfino attitudini di tipo ‘volterriano’, si basa sulla difesa della libertà di espressione e di militanza politica. Il tema è assai complesso ma, in buona sostanza, resta prigioniero di nodi concettuali irrisolvibili. Intanto, perché non mette mai in conto la tutela delle vittime di questi atti ‘politici’: le vittime, di fronte, per esempio, alla libertà ‘politica’ di sparare, perdono ogni rilevanza, sia dal punto di vista umano che giuridico. E poi perché realizza una gelatina di ragioni nelle quali diventa impossibile discernere: quanto incide il ‘colore’ politico del terrorista? quanto cambia la situazione se la bomba è fatta esplodere in un paese governato da una dittatura sanguinaria e o da una democrazia di tipo liberale? L’illuminismo delle premesse, insomma, rischia di capovolgersi nel suo contrario: il rischio, tra gli altri, di eticizzazione dello stato è inevitabile, così come è inevitabile la manipolazione politica della realtà.

Molti intellettuali francesi – un esempio per tutti è quello dello scrittore e saggista Philippe Sollers – hanno sostanzialmente avallato due idee tipiche di un certo cliché culturale italiano (Toni Negri, Oreste Scalzone, ex brigatisti) e che un po’ si tengono tra loro. La prima è l’idea che in Italia negli anni Settanta ci fosse una guerra civile. La seconda è che in Italia vi fosse un regime di fatto fascista e che di conseguenze le violenze fossero giustificate. Ovviamente Battisti farebbe parte di una lunga fila di vittime di questa guerra civile e/o di questo stato fascista. L’argomento è trito. Sfruttato da decenni per avallare la violenza (in luogo) del proletariato. Perfino suggestivo perché trasforma sconclusionati e meschini rivoluzionari in eroi maledetti, paladini della libertà, perseguitati politici. Sarà per questo che piace ai romanzieri. Ma, con tutto il romanticismo, la buona volontà e l’immaginazione narrativa possibili, proprio non regge. Basta mettere in fila gli elenchi delle persone ammazzate e gambizzate e ascoltare le ragioni e le dichiarazioni dei brigatisti italiani, per capire i disastri che la cecità ideologica ha potuto produrre.

Collegato a questi è l’ultimo argomento politico. Se tutto questo è vero (la guerra civile, il disagio sociale, la protervia fascista, ecc.) la cosiddetta generazione dei perdenti, quelli che hanno imbracciato le armi, non hanno responsabilità per gli atti commessi, i loro non sono crimini ma fatti politici che si iscrivono nella fatica di quegli anni. Serve, insomma, la ‘soluzione politica’ che, ovviamente, si risolve in un’amnistia. E, soprattutto, si risolve nel solito disprezzo per il diritto e per i diritti.

Qualche anno fa Giovanni Moro propose l’unica soluzione seria e accettabile: realizzare anche in Italia quella commissione per la riconciliazione che in Sudafrica ha chiuso in qualche modo la vicenda dei crimini dell’apartheid barattando la giustizia con la verità. Il problema è che in Italia e in Francia mancano le condizioni di base – culturali prima di tutto – per la vittoria della trasparenza e della responsabilità sulla partigianeria. Ancora oggi, infatti, quegli intellettuali e quei militanti che dovrebbero raccontare quella scomoda verità continuano a percorrere la strada della ossessione e della manipolazione ideologiche.



Non tutti però: Roberto Saviano che pure nel 2004 firmò l’appello per Battisti ha chiesto successivamente di essere esonerato e di questa capacità di riconoscere gli errori gli va dato atto. Ci piace pensare che almeno lui avesse capito che l’ultima violenza contro le vittime è proprio quella di trasformare i carnefici in perseguitati.