Alcune misure sembrano particolarmente
efficaci: i protocolli di legalità obbligatori, il monitoraggio costante
delle prefetture sulle aziende esposte al rischio di penetrazione
mafiosa, la maggior tutela dei segretari comunali e provinciali, il
divieto di collocare i pubblici impiegati condannati anche con sentenza
non passata in giudicato in uffici deputati alla gestione delle gare di
appalto (misura che serve ad ovviare la sostanziale disapplicazione
della pena accessoria dell'estinzione del rapporto di pubblico impiego),
la delega al Governo per la non candidabilità in organismi di
rappresentanza politica di soggetti condannati per corruzione e reati
similari.
Si tratta di misure che in qualche modo
contribuiscono a creare un sistema di preallarme rispetto agli inizi dei
fenomeni di corruttela. Ed è quanto suggeriva la Commissione Cassese
già nel 1996.
Letta nel suo complesso, però, la legge
approvata assume più un valore simbolico che reale, a causa delle
numerose lacune che i diversi passaggi parlamentari non sono riusciti a
colmare.
In primo luogo, non convince la
formulazione dei nuovi reati. Per esempio, sono previste pene davvero
minime per reati come il traffico di influenze. Ciò impedirà di condurre
indagini approfondite attraverso, tra l'altro, l'uso delle
intercettazioni. Il reato di corruzione fra privati – che serve a
perseguire le forme di corruzione conseguite al processo di
esternalizzazione dei compiti pubblici (società miste, consulenti,
general contractor) - riguarderà solo i vertici delle strutture private e
mai i quadri intermedi o i dipendenti: esattamente al contrario delle
raccomandazioni del rapporto GRECO (il Gruppo degli Sati Europei contro
la Corruzione).