lunedì 3 gennaio 2011

Battisti, Saviano e l'ultima violenza


L’esultanza di un certo manipolo di intellettuali per il ‘NO’ del Brasile all’estradizione di Battisti era questione di ore, se non minuti, e puntualmente è arrivata. Come anticipato in un precedente post la lista dei difensori è lunga e – visto che si tratta di gente anche molto nota che non ha bisogno di ulteriore pubblicità - chi vuole potrà cercarsela da solo su internet (un appello a favore di Battisti risale al 2004, sottoscritto da molti italiani e francesi).

La questione merita una pausa di approfondimento per la varietà di argomentazioni giuridiche, politiche e morali che solleva. Ma, soprattutto, interroga la responsabilità di tutti coloro che hanno a cuore la costruzione di una ragione pubblica rispettosa dei fatti e dei diritti.



1. il primo insieme di questioni è squisitamente giudiziario. Alcuni intellettuali di nazionalità italiana e francese - rappresentati dalla figura di Fred Vargas, archeozoologa e scrittrice di gialli, autrice di un libello con il quale dimostra l’innocenza dell’imputato - sono convinti che quello di Battisti sia il caso di un uomo ingiustamente perseguitato. Certamente, le vicende giudiziarie, specie nei casi di terrorismo, sono tutt’altro che semplici e pacifiche e nessuno può escludere errori anche da parte dei magistrati. Tuttavia, la storia giudiziaria di Battisti dice che più di settanta giudici si sono occupati del caso, nel corso di ben nove processi (il primo è iniziato nel 1981, l'ultimo è terminato nel 1993) che hanno giudicato Battisti responsabile di un elevato numero di rapine, di possesso illegale di armi e di quattro omicidi. La pena dell'ergastolo non è mai stata scontata.

Sul versante giudiziario si contestano almeno tre punti: la legislazione d’emergenza contro il terrorismo, l’uso dei pentiti, il giudizio in contumacia. Il tema della legislazione d’emergenza è importante: è assai discutibile che, in determinate situazioni, per quanto complesse, gli strumenti normali del diritto possano essere aggravati con i conseguenti rischi per le garanzie degli imputati. Allo stesso tempo, legislazioni specializzate esistono e sono state applicate, per esempio, anche sul versante della lotta alla mafia.

Alcuni intellettuali – specie in Francia – accusano lo stato italiano di aver sospeso la democrazia per aver usato i pentiti contro il terrorismo. D’altra parte, però, l’uso dei collaboratori di giustizia nella lotta alla mafia si è rivelato un metodo vincente che molte legislazioni – anche quella francese – hanno copiato. Perché, allora, non esiste nessun caso Dreyfus tra i padrini di Cosa Nostra? Né si può dire che la legislazione speciale sia stata costruita su misura per il cittadino Cesare Battisti. Si tratta comunque di norme che coprono quei reati, chiunque li abbia commessi, e per questo mantengono i loro requisiti essenziali di generalità e astrattezza.

Sulla condanna in contumacia, infine, c’è poco da obiettare. Nel processo si deve garantire la difesa dell’imputato, ma non la sua impunità perché semplicemente non si è presentato in giudizio. Non farsi processare sarebbe ovviamente la difesa ideale, ma l’ordinamento giuridico non prevede soluzioni così comode. Ovviamente, se irregolarità formali o violazioni di legge a tutela del diritto di difesa dell’imputato vi sono state – come alcuni accusano – vanno rilevate e sanzionate. Ma si fa fatica onestamente a immaginare che ciò sia accaduto in tutti e nove i processi che sono stati celebrati.

Resta un dato di fondo assai sgradevole sull’uso politico della magistratura che tutti ovviamente fanno volentieri appena si tratta di difendere se stessi.



2. C’è poi una seconda area di questioni – in verità assai varie - che sono di natura prettamente politica.

La prima – incarnata, per esempio, dal filosofo francese Bernard Henry Lévy - non entra nel merito della colpevolezza di Battisti, ma si limita a proporre un’interpretazione estensiva della dottrina Mitterrand, che amplia il diritto d’asilo a tutti gli ex terroristi. Il punto di partenza ovviamente è assai nobile, scomoda perfino attitudini di tipo ‘volterriano’, si basa sulla difesa della libertà di espressione e di militanza politica. Il tema è assai complesso ma, in buona sostanza, resta prigioniero di nodi concettuali irrisolvibili. Intanto, perché non mette mai in conto la tutela delle vittime di questi atti ‘politici’: le vittime, di fronte, per esempio, alla libertà ‘politica’ di sparare, perdono ogni rilevanza, sia dal punto di vista umano che giuridico. E poi perché realizza una gelatina di ragioni nelle quali diventa impossibile discernere: quanto incide il ‘colore’ politico del terrorista? quanto cambia la situazione se la bomba è fatta esplodere in un paese governato da una dittatura sanguinaria e o da una democrazia di tipo liberale? L’illuminismo delle premesse, insomma, rischia di capovolgersi nel suo contrario: il rischio, tra gli altri, di eticizzazione dello stato è inevitabile, così come è inevitabile la manipolazione politica della realtà.

Molti intellettuali francesi – un esempio per tutti è quello dello scrittore e saggista Philippe Sollers – hanno sostanzialmente avallato due idee tipiche di un certo cliché culturale italiano (Toni Negri, Oreste Scalzone, ex brigatisti) e che un po’ si tengono tra loro. La prima è l’idea che in Italia negli anni Settanta ci fosse una guerra civile. La seconda è che in Italia vi fosse un regime di fatto fascista e che di conseguenze le violenze fossero giustificate. Ovviamente Battisti farebbe parte di una lunga fila di vittime di questa guerra civile e/o di questo stato fascista. L’argomento è trito. Sfruttato da decenni per avallare la violenza (in luogo) del proletariato. Perfino suggestivo perché trasforma sconclusionati e meschini rivoluzionari in eroi maledetti, paladini della libertà, perseguitati politici. Sarà per questo che piace ai romanzieri. Ma, con tutto il romanticismo, la buona volontà e l’immaginazione narrativa possibili, proprio non regge. Basta mettere in fila gli elenchi delle persone ammazzate e gambizzate e ascoltare le ragioni e le dichiarazioni dei brigatisti italiani, per capire i disastri che la cecità ideologica ha potuto produrre.

Collegato a questi è l’ultimo argomento politico. Se tutto questo è vero (la guerra civile, il disagio sociale, la protervia fascista, ecc.) la cosiddetta generazione dei perdenti, quelli che hanno imbracciato le armi, non hanno responsabilità per gli atti commessi, i loro non sono crimini ma fatti politici che si iscrivono nella fatica di quegli anni. Serve, insomma, la ‘soluzione politica’ che, ovviamente, si risolve in un’amnistia. E, soprattutto, si risolve nel solito disprezzo per il diritto e per i diritti.

Qualche anno fa Giovanni Moro propose l’unica soluzione seria e accettabile: realizzare anche in Italia quella commissione per la riconciliazione che in Sudafrica ha chiuso in qualche modo la vicenda dei crimini dell’apartheid barattando la giustizia con la verità. Il problema è che in Italia e in Francia mancano le condizioni di base – culturali prima di tutto – per la vittoria della trasparenza e della responsabilità sulla partigianeria. Ancora oggi, infatti, quegli intellettuali e quei militanti che dovrebbero raccontare quella scomoda verità continuano a percorrere la strada della ossessione e della manipolazione ideologiche.



Non tutti però: Roberto Saviano che pure nel 2004 firmò l’appello per Battisti ha chiesto successivamente di essere esonerato e di questa capacità di riconoscere gli errori gli va dato atto. Ci piace pensare che almeno lui avesse capito che l’ultima violenza contro le vittime è proprio quella di trasformare i carnefici in perseguitati.

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