giovedì 28 marzo 2013

Silvio c'è. Bersani non può più fingere di non vederlo

Ormai chiuse le consultazioni per il nuovo Governo. Fin dall’inizio di questa fase, Pierluigi Bersani ha detto no ad accordi con il Pdl, sostenuto da tutto il suo partito (almeno ufficialmente).



Ma la manifestazione di sabato scorso, 23 marzo 2013, in Piazza del Popolo a Roma è servita per lanciare un messaggio chiaro: Silvio c’è. Leggiamo, allora nelle pieghe del discorso del leader (con la wordcloud di Voleteilmiovoto).

L’appello al popolo – un classico del discorso berlusconiano – la fa da padrone. Il mainstream del comizio si coglie nelle parole “popolo”, “Italia”, “italiani”, “paese”, “insieme”. Il popolo per Berlusconi è da sempre il richiamo ad un rapporto organico e diretto con il leader. Il popolo è quello italiano, ma è anche quello delle libertà. Il richiamo costante e sistematico al popolo è la ragione per cui il soggetto politico guidato da Berlusconi viene assegnato alla famiglia dei populismi. Ma non è questo il punto. Il richiamo di sabato scorso al popolo, all’Italia, al paese, stavolta, non pare soltanto il classico schema per galvanizzare le truppe. Pare piuttosto un messaggio a chi ha in mano – almeno per ora - il pallino della formazione del governo. Il messaggio è: noi siamo il “partito italiano” (quello che si diceva della Democrazia cristiana). Qualsiasi cosa si faccia senza di noi, si fa escludendo il popolo italiano.

lunedì 25 marzo 2013

I due programmi di Bersani: "Todo cambia"



Pre-incarico a Bersani, dunque. Arrivato al giudizio elettorale con un programma in 10 punti. E punito dagli elettori. Costretto a riaggiustare il tiro subito dopo il voto, presentando 8 punti nella speranza di convincere Grillo.
Vediamo le differenze alla luce delle word cloud elaborate da Voleteilmiovoto.



Nella prima versione del programma di Bersani il mainstream è dato dalle parole “Europa”, “Italia”, “Paese”, “tutti”, “insieme”. Un ancoraggio forte alla dimensione nazionale, a sua volta incastonata nella dimensione europea. Un richiamo sostanzialmente ideale – se non generico - che vuole rassicurare sulle radici e sul raggio di azione. Un messaggio che non promette strappi, ma stabilità. Che trasmette il calore del destino comune, del camminare gli uni accanto agli altri.

L’altra linea è quella definita dalle parole “democrazia”, “democratici”, “progressisti”, “progetto”. Per definire un perimetro prima di tutto culturale e ideologico. E poi politico. Più che un programma, una definizione del campo. Un modo per intendersi: o state qui dentro, o siete qualcosa d’altro. A questo serve anche il recupero di temi chiave come “uguaglianza” e “donne”, capaci di definire il perimetro. O di termini vagamente morali come “rispetto” e “dignità”.

Il quadro si completa con pronomi e verbi coniugati nella prima persona plurale: “noi”, “crediamo”, “siamo”. Un modo per circoscrivere un’identità collettiva ben determinata, coesa, solida. Quasi una corazza indossata da un corpo fatto di persone e narrazioni. Identità rafforzata dal contraltare che si trova in due parole che ritornano e che parlano da sole: “contro” e “destra”.

Un messaggio che non vuole trasmettere programmi, obiettivi e impegni. Vuole solo comunicare un modo di essere, senza interessarsi della concretezza dei problemi e delle soluzioni. Per questo, basta l’estrema vaghezza di parole come “politica” e politiche”. 

La stessa parola “lavoro” - che campeggia tra le più ricorrenti nel programma del segretario - ancor più che una finalità sembra l’architrave storico e culturale dell’identità. Il partito democratico è il partito del lavoro: ancora una volta siamo di fronte ad una presentazione delle generalità di un soggetto politico, molto più che alla sua ricetta di governo.

In questo panorama così statico appare tuttavia una linea orientata verso ‘sorti progressive’: è quella definita dalle parole “ricerca”, “formazione”, “futuro”, “speranza”. Dall’unione di punti di programma e orizzonti si cerca di lasciare aperta una pur timida prospettiva di domani.

Troppo poco, dal punto di vista degli elettori. Bersani subisce un duro colpo. Tutto cambia. Il nuovo programma in 8 punti – da giorni esposto ai ripetuti rifiuti di Grillo – viene profondamente modificato.

Non più la destra: il nuovo nemico è l’“austerità”. Ovvero quell’insieme di politiche imposte dall’Europa - e sostenute in Italia dal governo Monti (che il Pd, però, ha lealmente sostenuto) – che stanno affamando gli italiani. E’ per questo, probabilmente, che accanto alla parola “lavoro” adesso acquista centralità la parola “sviluppo”. E ancora: “economia”, “finanza” e “bilancio” illustrano chiaramente dove si dovranno mettere le mani da subito.

Un gruppo di parole chiave (“programma”, “proposta”, “proposte”, “misure”, “obiettivi”) rappresenta bene il nuovo impegno programmatico di questa nuova fase. C’è uno scarto nuovo, un tentativo di movimento, il tentativo di innescare la marcia delle riforme. 

Lo si capisce anche dal ritorno di due termini come “legge” e “norme”: la lista è lunga e dettagliata. Un completo rovesciamento rispetto al programma elettorale. Su queste leggi e norme si misurerà il risultato del lavoro che il nuovo Governo dovrà svolgere con il nuovo Parlamento: i primi prodotti di una politica chiamata a trasformare il Paese. 

Seppure in un quadro di “stabilità”, l’emergenza è chiara: “cambiamento”, potenziamento”, “investimenti”. Il governo di Bersani dopo le elezioni non è più quello della forza tranquilla e della identità sicura. E’ il governo che vuole raccogliere la richiesta di trasformazione che gli italiani hanno espresso con il voto di febbraio. Per farlo saranno necessarie riforme profonde (e, in alcuni casi, misure spietate). Lo spiega bene un grappolo di termini come “rivisitazione”, “riduzione”, “correzione”, “revisione”. Il vento del cambiamento e della sfida sembra soffiare tra le pagine del nuovo programma di Bersani, che ha appena ricevuto un pre-incarico per verificare l’esistenza di una maggioranza.

Una determinazione tardiva sulla quale i commentatori hanno ironizzato non poco. Nelle prossime ore capiremo se si tratta del colpo di reni finale che consente di tagliare il traguardo. O dell’estremo tentativo prima della resa. In ogni caso, aspettiamoci sorprese.


@vittorioferla


(pezzo pubblicato su Linkiesta il 24 marzo 2013)


venerdì 22 marzo 2013

Sarà Grasso il Presidente della "concordia"?

L’eco dell’elezione dei Presidenti delle Camere è ancora molto forte, specie adesso che le consultazioni del Presidente della Repubblica sono entrate nel vivo a partire dall’audizione di Laura Boldrini e Piero Grasso.
Che cosa dobbiamo aspettarci dai due nuovi Presidenti? Molto emerge dai loro discorsi di insediamento. Della Boldrini abbiamo già scritto. Adesso tocca al Presidente del Senato. Ecco una lista delle parole chiave che caratterizzeranno la sua azione, nella lettura del progetto Voleteilmiovoto.



La prima parola chiave è “bisogno”.
Grasso appare consapevole della gravità del momento storico in cui ci troviamo. L’Italia ha “bisogno di risposte rapide ed efficaci all’altezza della crisi economica e sociale, ma anche politica”, ha bisogno allo stesso tempo di “concordia” e “pace sociale”. Come aveva fatto in passato Aldo Moro nel suo tempo, anche la classe politica attuale dovrebbe comprendere “il bisogno e le speranze di rigenerazione” che animano e tormentano la società italiana. In una condizione di bisogno si trovano prima di tutto le istituzioni: si va dalle istituzioni penitenziarie (“ che hanno bisogno di interventi prioritari”) alle istituzioni sul territorio, primi tra tutti i comuni – che hanno bisogno di “ossigeno” (leggi: risorse) da parte dello Stato per garantire i servizi essenziali.
Per rispondere a questi impegni, prima di tutto la stessa politica “ha bisogno di essere cambiata e ripensata dal profondo, nei suoi costi, nelle sue regole, nei suoi riti, nelle sue consuetudini, nella sua immagine”.

giovedì 21 marzo 2013

Con Laura Boldrini avremo una Camera dei diritti?

Il nuovo Parlamento si è insediato. La XVII legislatura è avviata. Primo atto necessario: l’elezione dei Presidenti delle Camere.
Un atto dovuto, certo. Ma non privo di conseguenze. Perché il ruolo istituzionale, al di là delle norme che lo circoscrivono e delle prassi che lo hanno caratterizzato negli anni della Repubblica, è anche il frutto di una interpretazione che deriva dalla storia e dalla cultura dell’eletto.
Proprio per questo, al di là delle emozioni del momento, è utile leggere tra le righe del discorso di insediamento di Laura Boldrini, la neoeletta Presidente della Camera dei Deputati. Quali sono le parole più frequenti, quelle che meglio caratterizzeranno il corso di questa alta magistratura dello Stato?
Come emerge dalla word cloud, la presidenza Boldrini nasce nel segno di alcune parole (o gruppi di parole) chiave, analizzate nell'ambito del progetto Voleteilmiovoto.



La prima è “responsabilità”, variamente declinata.
In primo luogo, la responsabilità come onore e onere derivante dalla stessa funzione parlamentare e di Presidente. In senso più ampio, è la responsabilità che deriva dalla rappresentanza dei cittadini all’interno dell’aula parlamentare. Allo stesso tempo, la responsabilità è mettersi a disposizione, mettersi al servizio delle istituzioni, restaurando quell’abito mentale e quello stile che anni di strappi e sfregi alle norme e alle istituzioni hanno affievolito o, addirittura, cancellato. Infine, la responsabilità è legata ad un ruolo specifico che bisognerà incarnare nella quotidiana vita dell’organo.

domenica 17 marzo 2013

Per favore, spiegate Grillo al Pd




Niente da fare. Sono passate due settimane dal voto (il pezzo è stato pubblicato su Linkiesta il 10 marzo 2013, ndr). E ancora niente. Il Partito democratico - a partire dai dirigenti, passando per gli intellettuali di complemento, fino allo stesso elettorato più fedele - ancora non ha capito Grillo. O forse non lo vuole capire.

Ogni passaggio - dalla dichiarazione post-voto di Bersani, alla proposta degli otto punti, al rito della direzione nazionale, allo stillicidio di dichiarazioni sui giornali - ha aggiunto un motivo plausibile per spiegare la sconfitta (mai quello giusto, però). Eccone un campionario.

"Abbiamo perso per causa della crisi economica". L'argomento ci sta tutto, volendo. Ma è consolatorio. Primo: la crisi c'è da un pezzo, mica la scopri il giorno dopo le elezioni. Secondo: la crisi c'è per tutti mica solo per il Pd. La domanda si ripropone intatta: perché il Pd ha perso, visto che la crisi vale per tutti? Forse perché il Pd non se ne è fatto carico in tempo? Se l'avesse fatto, magari, la reazione degli elettori sarebbe stata diversa.

"Abbiamo perso perché non abbiamo contestato a sufficienza le politiche di austerità dell'Europa". La versione più 'intelligente' di questo argomento è: "abbiamo perso perché non abbiamo contestato a sufficienza il fiscal compact imposto dalla Merkel". Ora, pensare che il voto del cittadino comune in Italia sia determinato da un approfondimento critico delle politiche europee fa capire la distanza siderale che esiste tra quel partito e il sentimento popolare. Ipotizzare, poi, che il voto popolare sia orientato a punire il Pd perché la Merkel intenda, fa proprio sorridere. Ma la cosa più grave - se finalmente si vuol parlare di cose serie - è pensare di uscire dalla crisi aumentando di nuovo irresponsabilmente i flussi di spesa pubblica. Il rigore fa male, non c'è dubbio. Ma estendere illimitatamente il debito pubblico in presenza di una classe politica e di una amministrazione pubblica inefficienti è perfino peggio: sarebbe questa la nuova ricetta progressista?

"Abbiamo perso per il sostegno al governo Monti". Quando la maestra ci sgrida da bambini a scuola, si sa, è sempre colpa di qualcun altro. E, comunque, un compagno di classe da offrire come sacrificio umano si trova sempre. Insomma, prima chiami Monti per fare quel lavoro sporco, necessario per salvare il salvabile, che nessuno vuol fare e poi lo denunci come il primo responsabile della crisi. Bel colpo! Questo si, garantisce la credibilità di un gruppo dirigente. E poi c'è sempre da capire com'è che il Pd perde tre milioni e mezzo di voti e Monti, che si presenta per la prima volta, guadagna al primo colpo il 10 per cento dell'elettorato. Miracoli del belpaese...

La sostanza di tutto ciò risiede nell'argomento principe, quello meno dichiarato e, soprattutto, per niente dimostrato: "abbiamo perso perché non siamo stati abbastanza di sinistra". Qui si raggiunge l'apoteosi. In questo modo, si legge il voto al M5S come un voto di sinistra tradizionale, nemmeno lontanamente vedendo la connotazione del tutto post-materialistica e a-ideologica di quell'elettorato. Quindi, il partito di Grillo diventa una costola della sinistra da riattaccare al corpo ferito, per ricreare il mito di un Fronte nazionale unito. Una scimmia fuggita dal recinto che si deve rabbonire e rieducare. Per far questo basta l'appello morale di grandi quotidiani e intellettuali e il gioco è fatto: si può camminare insieme, illuminati dal sol dell'avvenire.

Insomma, nell'analisi dei dirigenti del Pd (ma, a giudicare dai dibattiti in rete, anche dell'elettorato più 'stretto') mancano i due argomenti veri, troppo sconvenienti, evidentemente, per essere legittimati.
Il primo è questo: "abbiamo perso perché noi siamo ormai diffusamente percepiti come un pezzo di quella odiosa casta che blocca lo sviluppo del paese: il movimento dei grillini è nato proprio contro di noi". Per giocare con le metafore alla Bersani: è come se il fagiano - che ha già ricevuto una prima fucilata in pancia - volesse fare accordi con il cacciatore. Dagli otto famosi punti della resa è rimasta fuori proprio l'abolizione del finanziamento pubblico dei partiti. La scusa è che così i poveri non possono fare politica. La verità è che senza quelle risorse i partiti tradizionali non saprebbero nemmeno da dove cominciare per mantenersi in vita secondo le logiche di sempre.

Il secondo argomento è questo: "abbiamo perso perché cerchiamo i voti solo tra i nostri, vogliamo restare pochi ma buoni, gli altri elettori ci fanno schifo, ognuno si organizza il campo suo e poi semmai ci si accorda, altro che vocazione maggioritaria!" Chi ha provato a mettere in dubbio questo assunto ha fatto una brutta fine, isolato nel partito o espulso in esilio. Grillo, invece, questa scimmia senza storia e tradizioni, accetta i voti di tutti, senza moralismi, senza puzza sotto al naso. E così vince.

Però non è mica finita: si può pure fare peggio...


@vittorioferla

domenica 3 marzo 2013

Storia di una sconfitta: anche la rete condanna il PD



Perché ha perso il Partito Democratico? È una delle domande più frequenti in questi giorni di commenti postelettorali. La valanga di analisi – non soltanto quelle delle firme autorevoli, ma anche quelle degli amici di Facebook – ci sommerge.
Tra le tante, merita un commento il lavoro degli analisti di BuzzDetector che hanno setacciato circa 600 conversazioni in rete (avvenute prima delle elezioni, tra Novembre e Febbraio) relative ai punti di debolezza del PD. Un lavoro molto utile perché la ‘rete’ - anche se in Italia siamo ancora agli albori del fenomeno - può diventare un luogo cruciale per il posizionamento e la raccolta del consenso delle forze politiche.

Da queste conversazioni sono emersi 13 giudizi ricorrenti che illustrano bene le cause della sconfitta. Gli utenti della rete di questo PD dicono:
1. non è il mio PD
2. è un partito che ha paura di perdere
3. è il partito di Rosi Bindi
4. è il partito della lepre, della war room e dello smacchiamolo, smacchiamolo
5. è un partito che si allea con chiunque per lo status quo
6. è un partito senza una strategia
7. non sa che lavoro faccio
8. ha avuto paura di andare al governo
9. non è in grado di garantire i diritti civili del fine vita, coppie di fatto
10. si è fermato alle Frattocchie
11. si presenta con il Berlusconi della sinistra
12. non ha orgoglio
13. “prima vinciamo e poi decidiamo come fare”
In queste ore in cui i lamenti di dolore si mischiano già al rimpallo di responsabilità e alle autocritiche consolatorie, questi giudizi appaiono crudi e crudeli, ma fondamentali per chi vorrà farne buon uso.

1. I signori ‘tentenna’
I dirigenti del PD non sanno cosa vogliono. Totale mancanza di linea. Non una proposta. Più volte Bersani, nei colloqui privati e nelle interviste pubbliche, ha confessato: le cose si fanno e poi si dicono. Una frase che a molti militanti può apparire espressione di grande tempra morale e di ineccepibile serietà. Ma che in rete – e soprattutto nelle urne – non è bastata ai tanti elettori legittimamente in cerca di chiarezza strategica e programmatica. L’assenza di un timone è diventata via via palpabile e insopportabile.
Il PD non è riuscito a scegliere: prima ha abbracciato Vendola e il Psi (che insieme non arrivano al 4 per cento) senza misurarsi con iscritti e delegati; ha blandito Renzi per delegittimarlo e poi scaricarlo; ha sostenuto Monti per poi diffidarne. Ha cercato di farsi troppi amici, ricavando sguardi obliqui e perplessi. Avrebbe dovuto con coraggio sposare un progetto: ha rifiutato quello liberaldemocratico, ha lambito quello socialdemocratico ma non troppo sospettando (a ragione) che fosse senza sbocco, ha schivato la rabbia popolare e la domanda di democrazia diretta raccontandosi la storia del populismo.
Ma c’è di più. Perché, nel tempo, il Partito democratico è diventato il partito delle intese (più o meno larghe) e non degli obiettivi. “Un partito che si allea con chiunque per lo status quo” è un partito che valuta ottimale il proprio risultato politico non più in base al contenuto di programma realizzato, ma in base alla capacità di stringere un’alleanza. Un partito che “prima vinciamo e poi decidiamo come fare” perde l’orizzonte delle soluzioni e riduce tutto a tattica.
Senza scegliere, il PD ha trasmesso paura: “di perdere”, ma anche “di andare al governo”. La mancanza di bussola, alla fine, ha fatto disperdere la direzione del voto.

2. I signori ‘agèe’
Nonostante lo sforzo apparente delle primarie, l’immagine del partito è rimasta saldamente ancorata alla generazione novecentesca della Prima Repubblica. Facile incarnarla in colei che (“è il partito di Rosi Bindi”) ha cominciato la carriera politica come europarlamentare della Democrazia cristiana nel lontano 1989... Lo stesso Bersani, con il suo paternalismo così saldamente radicato nella provincia cattolica e comunista, è stato alla lunga vissuto come speculare al suo acerrimo avversario, ma ugualmente – se non maggiormente - ‘antico’.
Sarebbe ingiusto, però, prendersela solo con la classe dirigente. Le file ai gazebo di ottobre erano piene di fedeli e rispettabili elettori anziani. Compassato e ‘antico’ era lo scarso pubblico del comizio finale all’Ambra Jovinelli di Roma dove la diciottenne al primo voto che ha parlato dal palco svolgeva il tipico ruolo della mascotte nel solito vecchio circo.
Ovviamente, al di là del dato generazionale, apparentemente riequilibrato con la selezione delle primarie interne, il ritardo è prima di tutto culturale. Lo stesso staff del segretario nonché i quadri intermedi – pur fatti da giovani - sono stati percepiti come ‘vecchi’ per mentalità.
Nessuno stupore, dunque, se, all’indomani del voto, il comitato di emergenza del PD convocato per commentare il risultato e indicare la linea riesumasse i D’Alema, Veltroni, Violante, Franceschini, Marino, La Torre, Bindi, Fioroni e via elencando. I cittadini – che non sono stupidi – lo avevano già capito. E avevano risposto come sanno rispondere gli elettori ‘infedeli’…

3. I signori dei 'piani alti'
Per tutti i motivi di cui sopra, il PD è un partito “fermo alle Frattocchie”. E’ vero: questa piccola noterella storica è certamente ingenerosa. Ma la rete, si sa, è cattiva. Ti ammazza con sarcasmo. Ha un suo modo per dirti la verità.
E la verità è che l’arretratezza è prima di tutto culturale e che i gruppi dirigenti sono autoreferenziali. Non è che non stanno nel territorio. E’ che non stanno nella realtà.
Il PD è un partito “che non sa che lavoro faccio” è fra tutte l’affermazione più grave. Significa che ha perso i contatti con i problemi concreti dei cittadini, con quei lavoratori che una volta erano il suo blocco sociale, con la modernità che ha creato nuove forme di occupazione. Quelli che si lamentano in rete fanno cose che quelli del PD nemmeno conoscono. Ecco perché i lavoratori del Sulcis votano Grillo: perché c’è andato. Ecco perché i lavoratori dell’Ilva non votano il centrosinistra: perché si è dato. Ecco perché le partite Iva votano Berlusconi ieri e 5 stelle oggi: perché non sono evasori fiscali come pensano quelli del PD, ma precari senza tutele vessati dalle leggi e dal fisco.
Il PD sta troppo in alto per vedere tutta sta roba, figurati che cosa percepisce della rete.
E gli utenti della rete si fanno sentire. Probabilmente nel timore di perdere il voto dei cattolici (che, a quanto pare però, sembra estinto con queste elezioni) ha accuratamente evitato di affrontare temi di grande attualità come i diritti civili. Questo partito “non è in grado di garantire i diritti civili del fine vita o delle coppie di fatto”. Tanto emerge dalle conversazioni in rete, fatte molto spesso da persone che nel frattempo sono benissimo sintonizzate sull’attualità internazionale e sanno perfettamente che nei recenti referendum svoltisi in alcuni stati americani, i cittadini USA hanno dato l’ok sui matrimoni gay e che lo stesso hanno fatto nuove leggi in Francia e nel Regno Unito.

4. I signori ‘zimbello’
Bersani aveva di fronte due titani dell’entertainment. Grillo e Berlusconi sono due attori straordinari, capaci di trascinare il pubblico dove dicono loro. Sanno scegliere il copione, sanno fare le battute, sanno fare i simpatici e sanno anche ruggire. Bersani lo sapeva e ha scelto – almeno all’apparenza – la sobrietà della comunicazione: un profilo di serietà e autorevolezza per conquistare la fiducia contro le false promesse.
Non è andata bene. E le conversazioni degli utenti della rete lo avevano anticipato.
In primo luogo, l’assenza di contenuti è ricaduta sulla comunicazione. Come si fa una campagna elettorale senza anticipare neanche una proposta o un punto di programma? L’assenza di strategia è diventata una evanescenza della parola.
L’illusione del vantaggio acquisito ha prodotto sicumera. E la sicumera ha prodotto ingenuità colossali. Proprio nelle scelte di comunicazione. Ad un certo punto, Bersani si è pensato lepre. Il PD, il partito della lepre in fuga da inseguire. La deriva zoologica ha raggiunto l’apice nel giaguaro Berlusconi. Fino alla fine, Bersani gli ha promesso “una smacchiatina”. E il suo staff è riuscito a produrre uno dei video più insulsi e imbarazzanti che si ricordino (almeno questo, però, programmatico…: “lo smacchiamo!”). Capace forse di motivare i fedeli. Ma anche di scatenare le risate dei più smagati.
Alla fine, le conversazioni in rete sono diventate crudeli. La lepre l’hanno acchiappata. E il giaguaro sta lì beato a coccolarsi le macchie.
La stessa war room della comunicazione è diventata una riedizione della gioiosa macchina da guerra del 1994: insomma, venti anni senza maturare non dico una coscienza del pericolo, ma almeno una scaramanzia contro il ridicolo. Il partito si è affidato ai ‘300 spartani’, un migliaio circa di volontari sparsi in giro per l’Italia e coordinati dal terzo piano della sede di Sant’Andrea delle Fratte, ispirati alle gesta epiche degli antichi guerrieri greci. Tutti giovani pieni di entusiasmo e passione, impegnati senza risparmio h24: ma che hanno svolto il compito di pretoriani del loro candidato piuttosto che quello di comunicatori. Anche qui la rete ha colpito quasi subito: come si fa a ispirarsi a quei soldati – eroici, per carità – ma che morirono tutti senza eccezione alle Termopili? Nemmeno a scriverlo ti riesce, un copione così…
Alla lunga, la stessa figura del segretario è diventata quella dello zimbello, oggetto di lazzi e sberleffi. E il Gargamella democratico è finito travolto dai puffi a cinque stelle.
Ecco perché per l'utente della rete questo Pd «non è il mio PD».


@vittorioferla


(pubblicato su Linkiesta il 1 marzo 2013)

sabato 2 marzo 2013

(Quasi) tutti gli orrori delle Elezioni 2013 in 12 post di Facebook

Nel corso dello spoglio elettorale ho postato i miei commenti su FB (con discreto interesse degli amici). Eccoli qui, tutti in fila.

#Elezioni2013 Post n.1
Non bisogna stupirsi di questo risultato. Il Pd ha finito la campagna elettorale con le primarie per il candidato premier quando ha definito i rapporti interni e conquistato il... 'proprio' elettorato. Poi più nulla: nessuna idea, nessuna linea, nessuna comunicazione. (Anzi no, sulla comunicazione mi sbaglio: un paio di video - uno sul terrazzo di via delle Fratte - che ha fatto battere il cuore dei 'propri' scrutatori...)

#Elezioni2013 Post n.2
Questo post è ardito, tagliato con l'accetta, ma lo scrivo lo stesso. Non ho ancora dati sull'età, ma il voto a Grillo mi pare il voto degli under 30 in un paese in cui almeno i due terzi della popolazione sono fatti di persone mature, se non anziane. Un blocco sociale a suo modo. Chissà se è un caso che Pd e Pdl valgano i due terzi del voto espresso...