
La prima emergenza è il “tempo” (purtroppo legato alla “politica”).
Più volte Renzi lancia la bomba: “E la politica perde tempo. (…) Ma questo alimenta l'antipolitica”, “qui invece si punta a prendere tempo”, “qui si sta facendo melina”. Insomma, bisogna “smettere di fare melina”: Renzi chiede di rendere “utile questo tempo”. La responsabilità è della politica alla quale si chiede uno scatto d’orgoglio: “Rivendico il diritto alla dignità della politica, che è una cosa seria”. In verità, non si tratta di una banale lamentazione. E sarebbe riduttivo piegarla ad una mera faida di partito. Da queste parole sembra emergere qualcosa di più: la consapevolezza che il blocco della politica è esattamente il motivo per cui il paese è fermo, sia sul piano della crescita economica che dello sviluppo sociale.
La risposta sta in un filotto di termini che parlano chiaro: “voglio”, “deve”, “fare”.
La frasi chiave sono: “Non voglio stare buono così qualcosa mi tocca. Non voglio essere cooptato da altri. Non voglio essere l'ultimo di quelli che c'erano prima”. Renzi costruisce l’immagine di un politico volitivo che non cresce nel partito grazie a premi fedeltà, ma che si impone per le sue idee e le sue capacità.
Il passaggio successivo (siglato dalla parola “deve”) consiste nel dimostrare la sua alterità dal suo stesso partito. “Il Pd deve decidere” e “deve smettere di fare melina”. E poi: “se il Pd ha paura
delle urne deve dialogare con chi ha i numeri”. Ancora: “Non si deve partire dagli equilibri tattici, ma dalle persone. (…) Allo stesso modo, per il governo si deve partire dalle cose da fare”. E’ il profilo di un leader decisionista, che chiede chiarezza e detta la linea al suo partito, anche a costo di provocare l’ira di tanti dirigenti e militanti. Così accade, infatti. Questo profilo viene percepito dai settori più tradizionali del partito con i tratti del leaderismo. Il motivo per cui Renzi e Berlusconi pari sono.
Anche il richiamo al “fare” può ricordare lo spirito del Cavaliere: “per il governo si deve partire dalle cose da fare”. I sostenitori, viceversa, possono cogliere un’impronta ‘obamiana’ nel “si può fare”. Resta il fatto che – spiega Renzi – “se avessimo fatto ciò che dovevamo fare Grillo non arrivava a doppia cifra”: il rammarico di chi, ancora una volta, chiede chiarezza di linea politica e determinazione nel perseguirla.
Un politico del genere non può aspettare. E non solo per motivi tattici. Pone l’aut aut. O un governo con l’avversario storico. O al voto. “Votare” e “subito”: le due parole chiave. “Allora andiamo a votare”, chiede Renzi. E assicura: “io sono pronto a votare subito”, “Io ho tutto l'interesse a votare subito. Ma l'importante è decidersi”. E in vista dell’appuntamento con le urne serve “una nuova legge elettorale, grazie a cui si sa subito chi ha vinto”. Appunto. Forse c’è la paura di chi teme di bruciarsi ogni giorno di più. Ma sembra anche di cogliere una declinazione del confronto politico frenetica che si gioca nella disfida del voto. Ancora una volta sembra di rivedere in controluce i tratti del Cavaliere: è ciò che fa imbestialire la guardia fedele del Partito democratico. Molti, però, leggono in questo atteggiamento una nota di sana spavalderia che non rinuncia all’appuntamento con la storia e con le responsabilità che ne derivano.
L’avversario al quale si lancia il guanto della sfida è solo uno: “Berlusconi” (altro termine ricorrente, infatti). Certo, “Bersani” ritorna nel discorso di Renzi. Ma come sfigura sbiadita, umiliata e offesa (dai grillini, in particolare). Lo dice bene, pur cercando di nascondere il giudizio con una falsa modestia: “è secondario quel che fa Renzi o quel che fa Bersani”. Il Cavaliere sfidante è sempre il solito. Non puoi rimuoverlo: “o Berlusconi è il capo degli impresentabili, e allora chiediamo di andare a votare subito; oppure Berlusconi è un interlocutore perché ha preso dieci milioni di voti”. Un crescendo che annuncia la battaglia che prima o poi dovrà combattere: “Io non voglio Berlusconi in galera. Voglio Berlusconi in pensione”.
Quando si passa dalle persone ai soggetti politici il rapporto si rovescia. Quasi nessuno spazio al Pdl, probabilmente per la coincidenza del contenitore con il suo leader. Spazio al “Pd” che diventa termine di riferimento ricorrente, ma in negativo. Il Pd, per il sindaco di Firenze, è un cruccio. Un’arma spuntata. Un partito vittima di “umiliazione” per il quale sarebbe urgente un “sussulto d’orgoglio”.
Renzi chiarisce: “Voglio bene al Pd, ma prima ancora voglio bene all'Italia”. Il punto, qui, è che l’inadeguatezza dello strumento è dovuta, prima di tutto, alla sua progressiva distanza dal paese. L’attacco al Pd è potente. “Italia” diventa parola chiave (insieme con “italiani”). Il Pd, spiega Renzi, non si fida degli italiani: “Non possiamo fare questa cosa perché gli italiani non ci capirebbero". Il rottamatore accusa: “Non sono gli italiani che non ci capiscono; siamo noi che non capiamo loro. Come se gli italiani fossero meno capaci di noi di intendere o di volere”. Non sopporta “l’astio ideologico verso gli italiani” che alligna nel suo partito: “Rivendico il diritto e il dovere di parlare ai ragazzi che seguono Amici, che non sono meno italiani dei radical chic che mi criticano. Io voglio cambiare l'Italia mentre una parte della sinistra vuole cambiare gli italiani”.
Una frattura quasi antropologica. E non è poca roba. Perché vincere è impossibile se detesti il tuo potenziale elettorato.
@vittorioferla
(pubblicato su Linkiesta, il 6 aprile 2013)
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